Sono molte le disposizioni in materia di sanità inserite quest’anno nella proposta di bilancio triennale dello Stato che inizia la mattina del 9 dicembre 2019 il proprio percorso nell’assemblea del Senato. Molti sono stati gli emendamenti fin qui presentati in Commissione e ci sarà tempo fino alle 12 per presentarne altri.
In primo luogo il Fondo sanitario Nazionale viene incrementato passando a 114,4 miliardi di euro per l’anno 2020.
Sono previsti anche i fondi per i rinnovi contrattuali 2019-2021. Così l’art. 13 incrementa le risorse a carico dello Stato da destinare alla contrattazione collettiva nazionale per il triennio 2019-2021 con incrementi retributivi (1,3% nel 2019, 1,9% nel 2020, 3,5% dal 2021) per il personale della Pubblica Amministrazione. Invece, per il personale dipendente e convenzionato del SSN gli oneri rimangono carico dei bilanci delle relative amministrazioni ed enti.
Il Capo IV del disegno di legge 1586 (artt.54-55) è dedicato alle misure in materia di sanità: dal taglio della quota di partecipazione al costo per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale per gli assistiti non esenti alla dotazione di apparecchiature sanitarie per i medici di medicina generale
Per fare fronte al fabbisogno di apparecchiature sanitarie finalizzate a garantire l’espletamento delle prestazioni di competenza dei medici di medicina generale, al fine di migliorare il processo di presa in cura dei pazienti nonché di ridurre il fenomeno delle liste d’attesa, è autorizzato un contributo pari a €. 235.834.000,00 a valere sull’importo fissato dall’articolo 20 della legge 11 marzo 1988, n. 67, come rifinanziato da ultimo dalla legge 30 dicembre 2018 n. 145 art. l comma 555 nell’ambito delle risorse non ancora ripartite alle regioni.
I trasferimenti in favore delle regioni saranno disposti sulla base di un piano dei fabbisogni predisposto e approvato nel rispetto dei parametri fissati con decreto del Ministro della salute, da adottarsi entro il 31 gennaio 2020, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.
Le apparecchiature sanitarie rimarranno di proprietà delle aziende sanitarie e saranno messe a disposizione dei medici, secondo modalità individuate dalle aziende medesime (comodato) .
Viene istituito anche il Fondo per la disabilità e per la non autosufficienza per finanziare interventi finalizzati al riordino e alla sistematizzazione delle politiche di sostegno alla disabilità”, prevede una dotazione di € 50 milioni per il 2020, € 200 milioni per il 2021 e € 300 milioni dal 2022 che vanno ad aggiungersi ai fondi del vecchio fondo per la non autosufficienza.
Giunto alla 53ª edizione, il Rapporto Censis interpreta i più significativi fenomeni socio-economici del Paese nella fase di eccezionale trasformazione che stiamo vivendo da un decennio. Le Considerazioni generali introducono il Rapporto descrivendo le piastre di sostegno, i soggetti e i processi per arginare la deriva verso il basso. Nella seconda parte, La società italiana al 2019, vengono affrontati i temi di maggiore interesse emersi nel corso dell’anno in una società ansiosa macerata dalla sfiducia: la solitaria difesa di se stessi degli italiani ‒ esito del furore di vivere e di stratagemmi individuali per difendersi dalla scomparsa del futuro ‒, le responsabilità collettive eluse, ma anche i grumi di nuovo sviluppo. Nella terza e quarta parte si presentano le analisi per settori: la formazione, il lavoro e la rappresentanza, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti e i processi economici, i media e la comunicazione, la sicurezza e la cittadinanza.
Il rapporto degli italiani con la sanità è sempre più improntato a una logica combinatoria: per avere ciò di cui hanno bisogno per la propria salute, si rivolgono sia al Servizio sanitario nazionale, sia a operatori e strutture private, a pagamento. Nell’ultimo anno il 62% degli italiani che ha svolto almeno una prestazione nel pubblico ne ha fatta anche almeno una nella sanità a pagamento: il 56,7% di chi ha un reddito basso e il 68,9% di chi ha un reddito di oltre 50.000 euro annui. Ci si rivolge al di fuori del Ssn sia per motivi soggettivi, per il desiderio di avere ciò che si vuole nei tempi e nelle modalità preferite, sia per le difficoltà di accedere al pubblico a causa di liste d’attesa troppo lunghe. Nell’ultimo anno su 100 prestazioni rientranti nei Livelli essenziali di assistenza che i cittadini hanno provato a prenotare nel pubblico, 27,9 sono transitate nella sanità a pagamento. Marcate le differenze territoriali: il 22,6% nel Nord-Ovest, il 20,7% nel Nord-Est, il 31,6% nel Centro, il 33,2% al Sud. Forte è la pressione della spesa sanitaria privata: per l’81,5% degli italiani pesa molto o abbastanza sul bilancio familiare (il 77,8% di chi risiede nel Nord-Ovest, il 76,5% nel Nord-Est, l’82,5% nel Centro, l’86,2% al Sud).
Per il 41,3% degli italiani stare bene significa trovarsi in uno stato di benessere psicologico, di soddisfazione, tranquillità e felicità. Dieci anni fa solo il 17,4% degli italiani la pensava così. Nella nuova e allargata concezione di benessere che si è affermata nell’ultimo decennio un ruolo significativo spetta alla sessualità. Il 71,4% dei 18-40enni italiani che hanno rapporti sessuali è molto o abbastanza soddisfatto della propria vita, mentre la quota scende al 52,5% tra chi non ha rapporti sessuali. Se una vita sessuale soddisfacente innalza il benessere soggettivo, su un ambito decisivo per la salute come quello della prevenzione sessuale i giovani sono ancora un passo indietro, con comportamenti poco attenti a mettersi al riparo dai rischi. Il 57,9% dei 18-40enni ha fatto sesso senza usare alcun metodo contraccettivo e il 18,2% ha utilizzato il coito interrotto. Solo il 21,6% dei millennial ha sempre utilizzato contraccettivi.
I rischi della svalorizzazione del terzo settore. In Italia ci sono 343.432 istituzioni non profit (+14% tra il 2011 e il 2016) che occupano 812.706 dipendenti (+19,4% nello stesso periodo). Più della metà delle organizzazioni risiede nelle regioni settentrionali (il 28% nel Nord-Ovest, il 23,3% nel Nord-Est), il 22,2% nel Centro, il 26,7% nel Mezzogiorno. La presenza è radicata nei territori, dove il terzo settore svolge una funzione economica e sociale decisiva per le comunità, ma che oggi vive una messa sotto attacco con il relativo rischio di downgrading di fiducia e reputazione nell’opinione pubblica. Tra gli italiani è presente una propensione alla generosità: il 64,1% dei 18-40enni dichiara che gli piace fare qualcosa per gli altri, fare volontariato (il 67,9% delle donne e il 65,9% dei laureati). Tuttavia, affinché questa propensione diventi concreta, occorre che il terzo settore ottenga risultati in ambiti importanti per le persone. Oggi uno dei temi più significativi è quello della relazionalità e della qualità della vita nelle comunità. Il 92% degli italiani dichiara che gli piace o piacerebbe vivere in un contesto in cui le persone si conoscono, si frequentano e si aiutano (il 91,3% nel Nord-Ovest, l’89% nel Nord-Est, il 93,3% nel Centro, il 93,6% al Sud). In un Paese che invecchia rapidamente, dove nascono sempre meno bambini e aumentano le persone che vivono sole, la rete familiare resta il più importante meccanismo di solidarietà tra le persone di diverse generazioni. La capacità di creare relazionalità all’interno delle comunità diventa quindi una priorità. E il terzo settore è uno dei soggetti che può mettere in campo soluzioni.
La solitudine della non autosufficienza. Oggi in Italia le persone non autosufficienti sono 3.510.000 (+25% dal 2008), in grande maggioranza anziani: l’80,8% ha più di 65 anni. Non è autosufficiente il 20,8% degli anziani. Insufficienti e inadeguate sono le risposte pubbliche a un fenomeno destinato a crescere, considerato l’invecchiamento progressivo della popolazione. Il 56% degli italiani dichiara di non essere soddisfatto dei principali servizi socio-sanitari per i non autosufficienti presenti nella propria regione (il 45,5% dei residenti al Nord-Ovest, il 33,7% nel Nord-Est, il 58,2% nel Centro, il 76,5% al Sud). L’onere della non autosufficienza ricade direttamente sulle famiglie, chiamate a contare sulle proprie forze economiche e di cura. Per il 33,6% delle persone con un componente non autosufficiente in famiglia le spese di welfare pesano molto sul bilancio familiare, contro il 22,4% rilevato sul totale della popolazione. Forte è la richiesta delle famiglie di un supporto anche economico: il 75,6% degli italiani è favorevole ad aumentare le agevolazioni fiscali per le famiglie che assumono badanti.
Fonte: Focus n. 6 UPB – Elaborazione su dati della ragioneria Generale dello Stato
Il Focus n. 6 dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio del 2 dicembre 2019 è stato dedicato allo stato della sanità in Italia.
Secondo l’UPB il divario nella quantità e qualità dei servizi forniti dalle singole Regioni è evidenziato da diversi indicatori. La regolazione sempre più rigida e il controllo centrale progressivamente più stringente sulla gestione dei Servizi Sanitari Regionali (SSR) sono stati finalizzati prioritariamente, e con successo, al rientro dai disavanzi; solo con ritardo sono stati diretti a garantire il rispetto uniforme sul territorio dei livelli essenziali di assistenza (LEA), rimanendo a tal fine meno efficaci. La capacità di riorientare i servizi verso assetti più moderni e di riorganizzarli non è stata peraltro uniforme sul territorio. Di conseguenza le Regioni sottoposte a piano di rientro presentano, oltre agli squilibri economici, elevata mobilità passiva e livelli delle prestazioni non soddisfacenti.
Appare ancora insoddisfacente il grado di adempimento da parte della Regione lazio agli obblighi dei LEA.
La mobilità implica un trasferimento di fondi dalle Regioni meridionali, dalle Marche e dal Lazio ad altre Regioni, prima di tutto la Lombardia, e poi l’Emilia Romagna, il Veneto e la Toscana. Le prime così, oltre ad avere meno risorse da investire nei propri SSR, contribuiscono, da un lato, a finanziare i servizi sanitari (e in definitiva il sistema economico) delle seconde e, dall’altro, ad affollarli.
Preoccupa il saldo negativo della mobilità del Lazio evidenziato dal grafico.
Le Regioni con maggiore disavanzo non sono più quelle in piano di rientro, se si eccettua la Calabria, ma quelle a statuto speciale non in piano (tranne la Valle d’Aosta), che non sono obbligate a sottostare ai vincoli di spesa (in termini pro-capite, anche Molise e Valle d’Aosta).
Le regioni che, secondo il nuovo sistema di garanzia, non assicurano i LEA sono tutte quelle del Mezzogiorno, il Lazio, e anche la Provincia di Bolzano, la Valle d’Aosta e il Friuli-Venezia Giulia. Per superare il divario nella capacità di fornire il livello standard di prestazioni che deve essere garantito su tutto il territorio nazionale vanno affrontati, oltre al problema delle risorse, i limiti, presenti soprattutto in alcune aree del paese, in termini di abilità di programmazione, gestionali e organizzative e anche di resistenza alle pressioni della criminalità organizzata. Resta peraltro ancora disatteso l’impegno a superare il rilevante differenziale territoriale nella dotazione di infrastrutture.
Uno dei problemi più sentiti dai pazienti, dai loro parenti, ma anche dagli operatori più attenti, specialmente in alcune regioni, è quello di una insufficiente integrazione socio sanitaria, della presa in carico della cronicità e dell’assistenza agli anziani.
La Regione Lazio, a differenza di altre regioni, purtroppo sin dai primi anni della sua attuazione e anche dopo l’attuazione della riforma sanitaria ha mantenuto separata l’organizzazione dell’assistenza sanitaria da quella sociale con tutti gli inconvenienti che conosciamo e che “La Sapienza” in una inchiesta svolta per conto di Italia Oggi ha fotografato molto bene
Gli strumenti di programmazione a livello regionale sono il Piano Sanitario Regionale (l’ultimo è quello 2010-2012 che prevedeva il riequilibrio ospedale-territorio, la centralità dei Distretto e lo sviluppo dell’assistenza territoriale, poi abbiamo avuto solo dei Piani di rientro) e il Piano regionale degli interventi e dei servizi sociali, approvato solo quest’anno, che avrebbe dovuto essere integrato con il Piano Sanitario Regionale (art. 46 della legge 11/2016).
Tocca poi alle Aziende sanitarie Locali con il Piano Strategico l’attuazione a livello locale delle politiche regionali coinvolgendo gli enti locali.
Il Distretto è la dimensione territoriale in cui si integrano, ai sensi dell’art. 3-septies del D.lgs 502/1992 le prestazioni sociali a valenza sanitaria erogate dai Comuni in forma associata e le prestazioni sanitarie a valenza sociale e a elevata integrazione socio-sanitaria, erogate dal distretto sanitario.
Il Piano Sanitario di zona, che deve essere approvato dalla Conferenza locale sociale e sanitaria, rappresenta lo strumento di programmazione a livello distrettuale con cui vengono individuate le priorità in relazione alle problematiche del territorio, con esso viene definito il quadro finanziario e sono indicate le integrazioni necessarie per realizzare gli obiettivi di benessere socio-sanitario contenuti nel PSR.
A sua volta il Piano sociale di zona deve essere approvato dall’organismo di indirizzo e programmazione dei Comuni del Distretto socio-sanitario d’intesa con l’Azienda USL limitatamente alle attività socio-sanitarie.
È necessario che le programmazioni sociale e sanitaria si confrontino fin dall’avvio del processo con le altre politiche che influenzano salute e benessere sociale (politiche abitative, del lavoro, scolastiche, mobilità.
La spesa delle aziende sanitarie per l’assistenza socio sanitaria (Modello LA Codici 20801-21006) è molto varia passando dai 312 euro della ASL Roma 1, ai 63,85 della Roma 5.
Anche la spesa dei Comuni per la Missione 12 (D.lgs 118/2011) è molto variegata in Italia ma anche all’interno delle stesse regioni passando dai 280 euro pro capite della provincia di Trento, ai 142,58 euro di Ivrea, ai 266 euro della Capitale d’Italia che distribuisce la somma destinata alle politiche sociali come segue:
Nella regione Lazio il livello più basso di spesa per le politiche sociali è raggiunto con i 16 euro del Comune di Castelforte, l’ultimo della provincia di Latina sulle sponde del Garigliano.
Come si capisce vi sono profonde disuguaglianze soprattutto nell’ammontare delle singole voci di spesa previste nei bilanci comunali (infanzia, disabilità, anziani, dipendenze, soggetti a rischio esclusione, famiglia, diritto alla casa).
La dirigenza del Distretto è chiamata a svolgere un lavoro molto importante per integrare i finanziamenti e le altre risorse per dare risposte adeguate alle aspettative dei cittadini.
La Corte Costituzionale, Presidente Lattanzi e Redattore Franco Modugno ha depositato oggi la decisione del 22 ottobre scorso con cui ha accolto il ricorso della Regione Molise per l’annullamento dell’art. 25-septies del decreto-legge 23/10/2018, n. 119, convertito, con modificazioni, nella legge 17/12/2018, n. 136.
La Corte ha argomentato come segue: In linea di massima, deve infatti ritenersi corretta l’affermazione secondo la quale, una volta constatato il fallimento dei concordati Piani di rientro, i cui risultati sono accertati attraverso le periodiche verifiche effettuate nell’ambito di Tavoli di lavoro cogestiti, l’intervento dello Stato, attraverso l’istituto del commissariamento, coinvolge una fase di intervento sostitutivo ontologicamente riservato – sul piano normativo e gestionale – alle scelte statali, nell’ambito delle attribuzioni devolute e per le finalità indicate dall’art. 120, secondo comma, Cost.
E deve in proposito richiamarsi il costante assunto, ribadito da ultimo nelle sentenze n. 195 e n. 194 del 2019, secondo il quale «le Regioni possono evocare parametri di legittimità costituzionale diversi da quelli che sovrintendono al riparto di competenze tra Stato e Regioni solo a due condizioni: quando la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a riverberarsi sulle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite […] e quando le Regioni ricorrenti abbiano sufficientemente motivato in ordine alla ridondanza della lamentata illegittimità costituzionale sul riparto delle competenze, indicando la specifica competenza che risulterebbe offesa e argomentando adeguatamente in proposito».
Occorre peraltro assegnare il dovuto risalto alla circostanza che, per il concreto atteggiarsi delle specifiche opzioni esercitate in ambiti pur riservati, lo Stato possa “incidere” su competenze regionali concorrenti – come la tutela della salute ed il coordinamento della finanza pubblica – secondo prospettive che la Regione può rivendicare come menomative, e di là dai limiti tracciati dalle necessità insite nell’intervento in sussidiarietà.
Ove così non fosse, d’altra parte, si realizzerebbe una ipotesi di totale sottrazione al controllo costituzionale da parte delle Regioni, circa i possibili ambiti di interferenza con le relative attribuzioni, in tutte le ipotesi in cui lo Stato faccia uso degli eccezionali poteri al medesimo conferiti per surrogare carenze degli enti locali, in particolare sul versante della tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
Ebbene, nella vicenda in esame, introducendo la norma impugnata un meccanismo di incompatibilità tra la carica di commissario ad acta rispetto all’affidamento o alla prosecuzione di qualsiasi incarico istituzionale presso la Regione commissariata, si determina una automatica menomazione sul piano delle competenze, anche rispetto alla previgente disciplina, dal momento che il quadro normativo preesistente consentiva l’esercizio di quella funzione da parte del Presidente della Regione commissariata.
Un novum normativo che finisce, quindi, per determinare (specie per i commissariamenti in atto, ricoperti da presidenti di Regione, che decadono dall’incarico) una significativa interferenza nella sfera regionale, anche sul versante del relativo assetto ordinamentale, riferito, per di più, alla gestione di ambiti di competenza (sanità e coordinamento della finanza pubblica) concorrenti, anche se incisi dall’intervento sostitutivo dello Stato.
Non è quindi contestabile la legittimazione della Regione a far valere i vizi di una normativa che – pur se inquadrata nell’ambito dell’esercizio del potere sostitutivo dello Stato – modifica il previgente regime, direttamente riguardante non le attribuzioni del commissario ad acta in quanto tali, ma la persona che ricopra l’incarico di Presidente della Regione, assunto come soggetto incompatibile a svolgere quelle funzioni.
Nel merito, la questione è fondata.
Al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni avuto modo di ribadire che «l’inserimento di norme eterogenee rispetto all’oggetto o alla finalità del decreto-legge determina la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. Tale violazione, per queste ultime norme, non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza, giacché esse, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari (sentenza n. 355 del 2010), ma scaturisce dall’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione attribuisce ad esso, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge» (sentenza n. 22 del 2012).
La legge di conversione è fonte funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge ed è caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare e semplificato rispetto a quello ordinario. Essa non può quindi aprirsi a qualsiasi contenuto, come del resto prescrive, in particolare, l’art. 96-bis del regolamento della Camera dei deputati. A pena di essere utilizzate per scopi estranei a quelli che giustificano l’atto con forza di legge, le disposizioni introdotte in sede di conversione devono potersi collegare al contenuto già disciplinato dal decreto-legge, ovvero, in caso di provvedimenti governativi a contenuto plurimo, «alla ratio dominante del provvedimento originario considerato nel suo complesso» (sentenza n. 32 del 2014).
D’altra parte, «il carattere peculiare della legge di conversione comporta anche che il Governo – stabilendo il contenuto del decreto-legge – sia nelle condizioni di circoscrivere, sia pur indirettamente, i confini del potere di emendamento parlamentare. E, anche sotto questo profilo, gli equilibri che la Carta fondamentale instaura tra Governo e Parlamento impongono di ribadire che la possibilità, per il Governo, di ricorrere al decreto-legge deve essere realmente limitata ai soli casi straordinari di necessità e urgenza di cui all’art. 77 Cost. (sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007)» (sentenza n. 154 del 2015).
È vero – e va ancora ribadito – che «[l]a legge di conversione […] rappresenta una legge “funzionalizzata e specializzata” che non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei (ordinanza n. 34 del 2013), ma ammette soltanto disposizioni che siano coerenti con quelle originarie o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico» (sentenza n. 32 del 2014).
Tuttavia questa Corte ha anche precisato che la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. per difetto di omogeneità si determina solo quando le disposizioni aggiunte siano totalmente «estranee» o addirittura «intruse», cioè tali da interrompere ogni correlazione tra il decreto-legge e la legge di conversione (sentenza n. 251 del 2014), per cui «Solo la palese “estraneità delle norme impugnate rispetto all’oggetto e alle finalità del decreto-legge” (sentenza n. 22 del 2012) o la “evidente o manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell’originario decreto-legge” (sentenza n. 154 del 2015) possono inficiare di per sé la legittimità costituzionale della norma introdotta con la legge di conversione» (sentenza n. 181 del 2019, nonché, da ultimo, nello stesso senso, sentenza n. 226 del 2019).
Ebbene, alla stregua dei richiamati principi, appare nella specie evidente che tra le norme che hanno formato oggetto del decreto-legge n. 119 del 2018 e quella oggetto di scrutinio, inserita ad opera della legge di conversione, non sia intravedibile alcun tipo di nesso che le correli fra loro, né sul versante dell’oggetto della disciplina o della ratio complessiva del provvedimento di urgenza, né sotto l’aspetto dello sviluppo logico o di integrazione, ovvero di coordinamento rispetto alle materie “occupate” dall’atto di decretazione.
L’originario decreto, infatti, enunciava i presupposti della straordinaria necessità e urgenza come raccordati a «misure per esigenze fiscali e finanziarie indifferibili». Il provvedimento, in particolare, era strutturato in due titoli: il primo, recante «Disposizioni in materia fiscale», ed il secondo, «Disposizioni finanziarie urgenti». Il primo titolo era a sua volta suddiviso in tre capi: il primo recante «Disposizioni in materia di pacificazione fiscale», composto da nove articoli; il capo II recante «Disposizioni in materia di semplificazione fiscale e di innovazione del processo tributario», composto di sette articoli; il capo III recante «Altre disposizioni fiscali», composto da quattro articoli. Il Titolo II era composto da sette articoli.
Come posto in evidenza dal Comitato per la legislazione della Camera dei deputati, l’originario decreto-legge (composto, come si è detto, da 27 articoli) è passato, a seguito dell’esame del Senato, a 64 articoli complessivi. Il Comitato ha sottolineato, al riguardo, che il provvedimento appare riconducibile, sulla base del preambolo, a due distinte finalità: da un lato, quella di introdurre nuovi meccanismi di carattere fiscale; dall’altro lato, quella di effettuare rifinanziamenti di significativi stanziamenti di bilancio (quali le risorse destinate al contratto di programma con le società RFI-Spa, art. 21; quelle per il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, art. 22; quelle per l’autotrasporto, art. 23; quelle per le missioni internazionali, art. 24; a queste finalità – ha ancora osservato il Comitato – se ne aggiunge una terza, per quanto non riportata nel preambolo, vale a dire quella di intervenire in materia di integrazione salariale straordinaria, art. 25. «Andrebbe approfondita – rileva il documento – la riconducibilità a tale perimetro» di varie norme introdotte in sede di conversione, fra le quali si cita espressamente proprio l’art. «25-septies (piano di rientro dal disavanzo del settore sanitario)», che costituisce oggetto dei ricorsi.
Va infine sottolineato che il Comitato conclusivamente «raccomanda altresì quanto segue: abbia cura il Legislatore di volersi attenere alle indicazioni di cui alle sentenze della Corte costituzionale n. 22 del 2012 e n. 32 del 2014 in materia di decretazione d’urgenza, evitando “la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalità eterogenei”».
Pertanto, esclusa qualsiasi pertinenza delle disposizioni di carattere fiscale contenute nel titolo I del decreto rispetto al tema dei commissari per il ripianamento delle spese sanitarie regionali, non può non sottolinearsi come del tutto eccentrico rispetto a quel tema si presenti anche l’oggetto (e la ratio) delle disposizioni di carattere “finanziario”, posto che gli articoli del decreto “incasellati” nel titolo II sono dedicati, come si è visto, al finanziamento di specifiche attività o fondi tutti eterogenei gli uni rispetto agli altri.
D’altra parte, a segnalare la eccentricità della norma censurata rispetto alla materia del decreto sta – come correttamente puntualizza la Regione ricorrente – il rilievo che, in sede di conversione del decreto stesso, il legislatore abbia avvertito l’esigenza di modificare, in parte qua, proprio la rubrica del titolo II, introducendo le parole «e disposizioni in materia sanitaria», a testimonianza della estraneità della norma rispetto al contenuto del provvedimento convertito.
A tale riguardo, l’Avvocatura generale dello Stato osserva, da un lato, che la disposizione oggetto dei ricorsi è intervenuta su norme contenute in due leggi finanziarie, e dunque rientrerebbe nella “materia finanziaria” che costituisce in parte oggetto dell’originario decreto. Dall’altro lato, la difesa dello Stato rileva che la disciplina dei piani di rientro afferisce pacificamente alla materia della finanza pubblica e, in particolare, alle politiche di bilancio, dal momento che l’andamento economico della sanità regionale costituisce una componente essenziale del quadro macroeconomico nazionale, specie con riferimento proprio al caso dei commissariamenti, che presuppongono uno squilibrio di gravità tale da imporre interventi immediati sul piano del contenimento della spesa pubblica, a salvaguardia della unità economica nazionale e dei livelli essenziali di prestazioni in tema di salute.
A fronte di tali rilievi deve però rilevarsi che il concetto di “materia finanziaria” si riempie dei contenuti definitori più vari, in ragione degli oggetti specifici cui essa risulta in concreto riferita; mentre, non è certo la sedes in cui la norma risulti inserita (legge finanziaria) quella dalla quale cogliere quei tratti di univocità di ratio che la difesa della resistente pretenderebbe desumere.
È proprio perché la “materia finanziaria” risulta concettualmente “anodìna” – dal momento che ogni intervento normativo può, in sé, generare profili che interagiscono anche con aspetti di natura “finanziaria” – che il riferimento ad essa, come identità di ratio, risulta in concreto non pertinente a fronte di una disposizione i cui effetti finanziari sono indiretti rispetto all’oggetto principale che essa disciplina, giacché – ove così non fosse – le possibilità di “innesto” in sede di conversione dei decreti-legge di norme “intruse” rispetto al contenuto ed alla ratio complessiva del provvedimento di urgenza risulterebbero, nei fatti, privata di criteri e quindi anche di scrutinabilità costituzionale.
La disposizione impugnata deve pertanto essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 77 Cost.
Si è celebrata ieri 3 dicembre in tutto il mondo la Giornata internazionale delle persone con disabilità, proclamata dall’Onu nel 1981 con lo scopo di promuovere i diritti e il benessere dei disabili.
Istat, Comitato Italiano Paralimpico e Inail hanno anche promosso un’iniziativa congiunta ala presenza del Presidente Matttarella, patrocinata dalla Camera dei Deputati, per far conoscere meglio e in modo rigoroso il mondo della disabilità nel nostro Paese.
Dall’ 1 gennaio 2020 verrà istituito un ufficio permanente per le persone con disabilità a palazzo Chigi: “Sarà uno strumento per coordinare meglio il lavoro delle diverse amministrazioni”.
Saranno di 830 milioni nel triennio i fondi accantonati nella nuova legge di bilancio per le misure a sostengo delle persone disabili: lo annuncia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte al termine dell’incontro a palazzo Chigi delle Federazioni che rappresentano le persone disabili Fish e Fand
Di recente il Rapporto 2019 della European House-Ambrosetti Meridiano sanità: Le coordinate della salute, 2019,http://www.ambrosetticlub.eu prendendo spunto proprio dall’obiettivo dell’Agenda 2030 ha fornito tre gruppi di Key Performance Indicators per il monitorare il mantenimento dello Stato di salute della popolazione che si ritiene possano essere utilizzati dalle stesse aziende sanitarie per una autovalutazione:
Capacità di risposta del sistema sanitario ai bisogni di salute I KPI proposti in questo caso sono: – Tasso di copertura dei programmi di vaccinazione infantile (vaccini per difterite, tetano e pertosse, per morbillo e per pneumococco), tasso di copertura dei programmi di vaccinazione per gli anziani (vaccino antinfluenzale) e tasso di copertura dei programmi di vaccinazione per adolescenti (vaccino per Human Papilloma Virus – HPV). – Tasso di copertura degli screening, con riferimento ai programmi di screening a seno e utero. – Accesso all’innovazione farmaceutica da parte dei pazienti, misurata attraverso il tempo medio che intercorre tra l’autorizzazione per la messa in commercio di un nuovo farmaco e l’effettiva disponibilità sul mercato dello stesso in ciascun Paese. – Il livello di informatizzazione dei servizi sanitari, misurato attraverso la diffusione dell’e-booking, dell’e-prescription e del Fascicolo Sanitario Elettronico.
Efficacia, efficienza ed appropriatezza dell’offerta sanitaria In questo caso i KPI considerati sono: – Efficacia delle cure, misurata attraverso il tasso di sopravvivenza a 5 anni da cancro (indicatore composito costruito considerando i tassi di sopravvivenza al cancro al seno, all’utero e al colon-retto) ed il tasso di mortalità a seguito di infarto acuto del miocardio e di ictus (la sopravvivenza di un paziente colpito da infarto acuto del miocardio o da ictus dipende dalla tempestività ed efficacia del processo diagnostico-terapeutico che inizia con il ricovero). – Appropriatezza delle prescrizioni, delle prestazioni e dei ricoveri, misurata attraverso il volume di antibiotici prescritti (espresso in dosi definite giornaliere), il numero dei ricoveri (ospedalizzazione evitabili per BPCO, asma e diabete senza complicanze) e delle prestazioni (percentuale di parti cesarei) evitabili. – Permanenza media in ospedale, misurata come durata media in giorni del ricovero per malattie acute. – Qualità dell’offerta, indicatore misurato attraverso la durata delle liste di attesa e la valutazione della soddisfazione dei pazienti, utile a comprendere quanto un sistema sanitario riesca a rispondere alle aspettative dei pazienti
Risorse economiche I KPI analizzati in quest’area sono: – Propensione ad investire in Sanita, analizzata misurando il tasso di crescita della spesa sanitaria pubblica in % del PIL e la differenza tra il tasso di crescita della spesa sanitaria pro capite e il tasso di crescita del PIL. – Spesa out-of-pocket, analizzata come % della spesa sanitaria totale. – Spesa per long-term care, misurata con riferimento alla popolazione over 65. – Spesa pro capite di protezione sociale per malattia e disabilita, come % della spesa sanitaria pubblica.
Il quotidiano “Italia oggi” nei giorni scorsi ha presentato i risultati della sua 21a inchiesta realizzata in collaborazione con l’Università “La Sapienza” in collaborazione con la Cattolica Assicurazioni. L’indagine, come per gli altri anni è stata volta per province ed ha tenuto conto della riduzione del loro numero che da 110 è passato a 107 a seguito della riduzione del loro numero nella regione Sardegna. Per quanto riguarda la salute ci sono state alcune variazioni rispetto al passato in quanto sono stati introdotti nuovi indicatori e ne sono stati abbandonati altri: in pratica per quanto riguarda la salute sono stati aumentati gli indicatori relativi ai posti letto per mille abitanti e quelli relativi alle apparecchiature per la diagnostica, mancano invece quelli relativi al personale con il rapporto tra personale dipendente e posti letto probabilmente anche a causa delle difficoltà in taluni casi di acquisire i dati in maniera distinta per presidio per quanto riguarda gli ospedali gestiti da aziende sanitarie locali. Il primo grafico che ho potuto elaborare grazie alla pubblicazione dell’inchiesta su “Italia oggi sette” il supplemento settimanale del quotidiano che ha curato l’organizzazione è quello sulla qualità complessiva della salute in Italia che conferma purtroppo le molte disuguaglianze tra nord e sud e non solo. Ho provato a sviluppare un ulteriore grafico che prende in esame le province del Lazio.
Come si può vedere le differenze tra la provincia di Roma, collocata al 14° posto e le altre province del Lazio è stridente, anche se queste ultime hanno fatto qualche piccolissimo passo in avanti. Ma i problemi cominciano ad essere più evidenti mano mano che ci addentriamo nelle varie tematiche anche se spiace che gli autori dell’inchiesta non abbiano affrontato gli aspetti dell’assistenza territoriale. Una lunga serie di dati riguarda come accennato i post letto e anche in questo caso ho provato a fare una elaborazione per quanto riguarda le province del Lazio
Posti letto x 1000 abitanti nelle province del Lazio
Come anticipato prosegue la discrasia tra i letti a disposizione dei cittadini della provincia di Roma, dislocati specialmente nella Capitale e il resto del Lazio. Tale considerazione è confermata dalla stessa deliberazione della giunta regionale n. 149/2007 a seguito dell’accordo per il Piano di rientro sottoscritto il 28 febbraio 2007 nel quale troviamo scritto che “Il quadro regionale dell’offerta assistenziale risulta quanto mai diversificato e squilibrato sul territorio per lo più a vantaggio dell’area metropolitana, dove insiste la grande maggioranza dell’offerta ospedaliera: Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, Aziende ospedaliere, Aziende universitarie, Ospedali classificati, strutture private accreditate. Ciò determina una debolezza della rete nelle province con disagio per i cittadini e fenomeni di mobilità sanitaria”. Eppure nella citata deliberazione 149/2007 tra gli obiettivi specifici troviamo (punto 2.1) che si prevedeva un “potenziamento delle attività distrettuali per il governo della domanda orientato a garantire la continuità assistenziale l’accesso alle cure appropriate”, nonché “equità delle prestazioni per tutti i cittadini del territorio regionale” e “sviluppare il massimo dell’efficienza e del rigore sulle risorse disponibili per un ‘efficace rapporto costi/benefici nella salute” Invece di dare attuazione a queste indicazioni e quindi proseguire nel processo di decentramento avviato durante la gestione Badaloni dall’assessore Cosentino, durante successiva gestione commissariale e per molti anni non sono stati avviati adeguati processi per riorganizzare l’offerta, ma anzi sono stati chiusi molti ospedali sul territorio riducendo la disponibilità di letti e di servizi costringendo i pazienti a pesanti mobilità verso la Capitale. La fotografia attuale è che anche per quanto riguarda le apparecchiature sanitarie proseguono le disuguaglianze il che si traduce anche in ritardi nelle liste di attesa costringendo spesso i pazienti alla spesa out of pocket .
Ma la cosa che desta maggiore preoccupazione è che, nonostante lo sviluppo degli studi epidemiologici e la disponibilità di dati vi sia uno scollamento notevole tra quelle che sono le cause di morte per tumore e i posti letto per la cura di questa grave malattia come mostrato nel grafico che segue nel quale ho utilizzato i dati forniti nella parte dell’inchiesta sulla sicurezza sociale (morti per tumore tratti molto probabilmente dal Registro nazionale delle cause di morte – RENCAM) e quelli dei posti letto per mille abitanti contenuti nella parte dell’inchiesta dedicata alla salute.
Infine, per i più curiosi, ho provato ad integrare l’inchiesta di Italia Oggi con il rapporto tra personale e popolazione che quest’anno, come ricordato è stato tralasciato. Ho utilizzato gli atti aziendali e, dove erano disponibili nella sezione “Amministrazione trasparente” del sito web, i dati del Conto Annuale, così, sia pur con qualche difficoltà e con numeri talora un poco datati ho ottenuto il seguente risultato
La situazione del personale nel Lazio dal 2007 (anno in cui è iniziato il blocco delle assunzioni previsto del Piano di rientro e dalle altre norme) ad oggi è peggiorata molto e solo nel’ultima parte del 2018 ha cominciato ad essere introdotto qualche elemento per l’inversione di tendenza con il DCA U00045 in data 31 ottobre 2018 e con la successiva determinazione G14180 del 23 novembre 2018 con le quali è stato definito il fabbisogno delle aziende per i prossimi tre anni (2019, 2020 e 2021); peraltro le scelte fatte non sembra che tendano al riequilibrio del rapporto personale/popolazione attese le disuguaglianze mostrate dal grafico precedente che ha come punta l’azienda USL Roma 2 che, grazie all’accorpamento delle ex aziende Roma B e C è arrivata ad avere 8.442 dipendenti (dato fornito dal direttore generale nell’atto aziendale) con un rapporto dell’ 8,42 per mille (anche se ricordiamo che deve gestire tre ospedali), mentre altrove il rapporto è di gran lunga più basso e in molti casi insufficiente.
L’art. 10 del DPR 128/1969 prevedeva che le amministrazioni ospedaliere potessero realizzare, nell’ambito di ciascun presidio, strutture organizzative a tipo dipartimentale tra le divisioni, sezioni e servizi affini e complementari, al fine della loro migliore efficienza operativa, dell’economia di gestione e del progresso tecnico e scientifico.
L’art. 55 della legge 148/1975 ha modificato la norma citata
sottolineando l’esigenza di giungere attraverso il dipartimento
all’integrazione tra le funzioni territoriali anche socio sanitarie e quelle
ospedaliere.
Con DM dell’8 novembre 1976 sono state infine forniti
orientamenti per l’attuazione delle strutture dipartimentali ospedaliere e i
collegamenti con le altre strutture sanitarie.
In particolare l’art.1 di detto decreto stabilisce che il
Dipartimento deve realizzare i seguenti obiettivi:
La convergenza di
competenze e di esperienze scientifiche, tecniche ed assistenziali di
gruppi e di singoli operatori sanitari, per consentire l’assistenza
sanitaria completa del malato;
L’incremento della
ricerca e il collegamento tra didattica e assistenza;
Il miglioramento delle
tecniche sanitarie a livello interdisciplinare;
L’aggiornamento e il
perfezionamento professionale degli operatori sanitari di ogni livello, ai
fini di un’assistenza sanitaria sempre più qualificata e paritaria per
tutti i cittadini;
Il superamento delle
disfunzioni che determinano tempi lunghi o inutili degenze;
L’umanizzazione dei
rapporti tra strutture sanitarie, operatori sanitari, utenti del servizio
sanitario e loro familiari;
La
corresponsabilizzazione di tutti gli operatori sanitari sul piano
professionale, in relazione alle rispettive mansioni o funzioni anche con
riguardo alle esigenze organizzative;
I collegamenti tra le
competenze ospedaliere e quelle di altre strutture sanitarie per quanto
attiene agli interventi di tipo preventivo, curativo e riabilitativo e
all’educazione sanitaria.
Il dipartimento di emergenza e accettazione è stato il primo ad essere normato grazie al DPR 27 marzo 1992 secondo le specificazioni contenute nell’Atto di intesa tra Stato e regioni di approvazione delle linee guida sul sistema di emergenza sanitaria
Con l’avvento della riforma sanitaria ed in particolare con
l’art. 17 sono state confermate l’organizzazione dipartimentale e il principio
del collegamento tra i servizi ospedalieri ed extra ospedalieri della
integrazione delle competenze in modo da valorizzare anche il lavoro di gruppo.
Tale impostazione è stato poi ribadita dal D.lgs 502/1992 con
il quale l’organizzazione dipartimentale è stata prescelta come modello da
utilizzare sia nelle aziende ospedaliere che nelle aziende sanitarie locali[1].
Secondo Guzzanti il dipartimento «è una federazione di unità operative/servizi che mantengono la loro
autonomia, indipendenza e responsabilità, così come quella di ciascuno dei
soggetti che lo costituiscono e che, nel medesimo tempo, riconoscono la loro
interdipendenza, in funzione del raggiungimento di comuni obiettivi ed adottano
codici concordati e consensuali di comportamenti clinico-assistenziali,
didattici e di ricerca con accettati e condivisi risvolti operativi,
collaborativi, etici, medico-legali ed economici».
Secondo il Ministero della salute[2] il
Dipartimento è una organizzazione integrata di unità operative omogenee, affini
o complementari, ciascuna con obiettivi specifici, ma che concorrono al
perseguimento di comuni obiettivi di salute.
Esso, con il supporto di un sistema
informativo adeguato alla valutazione della produttività e degli esiti di
salute, rappresenta il modello organizzativo favorente l’introduzione e l’attuazione
delle politiche di governo clinico quale approccio moderno e trasparente di
gestione dei servizi sanitari e costituisce il contesto nel quale le competenze
professionali, ponendosi quale fattore critico per il conseguimento degli
obiettivi del dipartimento, rappresentano la principale risorsa dell’organizzazione.
L’atto aziendale deve prevedere
l’organizzazione dipartimentale di tutte le unità operative presenti.
I dipartimenti previsti
espressamente dalla normativa sono: il dipartimento di emergenza sanitaria (Linee
guida n.1/1996), il dipartimento di prevenzione (artt.7 e segg. del D.lgs
502/1992), quello di salute mentale (DPR 7/4/1994) e quello materno infantile
(DPR 1/3/1994), le cui articolazioni organizzative trovano collocazione
funzionale anche nel distretto.
Molte regioni hanno emanato norme
sui dipartimenti.
I criteri di aggregazione dei
dipartimenti più frequenti sono: per aree omogenee, per branca specialistica,
per età degli assistiti, per organo/apparato, per settore nosologico e per
momento di intervento sanitario/intensità e gradualità delle cure.
Il dipartimento grazie all’integrazione fisica (spazi, tecnologie, risorse umane), organizzativa (coordinamento delle risorse) e clinica (coordinamento spazio temporale del personale sul medesimo processo) consente di elevare l’efficienza, la qualità dei risultati assicurando il contenimento dei costi.
Possiamo così classificare i
dipartimenti in base alla tipologia delle unità operative che ne fanno parte[3]:
Aziendale: nel caso in cui sia costituito da unità
operative della stessa azienda;
Interaziendale: nel caso in cui ne facciano parte
unità operative di più aziende.
Un
altro tipo di dipartimento è caratterizzato dalla collocazione delle unità
operative che lo compongono:
Ospedaliero: se in esso sono aggregate solo unità
operative ospedaliere;
Transmurale: consigliato nelle aziende sanitarie
locali, composto da unità operative ospedaliere e territoriali, in genere della
stessa disciplina;
Possiamo avere ancora dipartimenti:
Funzionali: che non mettono in comune spazi e risorse;
Strutturali: che utilizzano spazi e risorse comuni.
Le regioni hanno infine scelto modelli diversi anche per quanto riguarda il tipo di governo dei dipartimenti: forte e gerarchicamente organizzato, oppure con una direzione più debole che si limita a coordinare.
Pertanto le aziende sanitarie locali dovrebbero favorire la creazione di dipartimenti transmurali come quello per l’emergenza integrando, sulla base delle funzioni omogenee svolte, i presidi che sul territorio si occupano di emergenza/urgenza. Una diversa organizzazione sarebbe un errore oltre a creare problemi di ingestibilità.
[1]A.
CICCHETTI (a cura di), I dipartimenti
ospedalieri nel servizio sanitario Nazionale, Franco Angeli, Milano 2012
[2]Direzione
generale della programmazione sanitaria, dei livelli essenziali di assistenza e
dei principi etici di sistema
[3]F.PESARESI,
I dipartimenti ospedalieri, ASI
Editore, Roma, 2000
Nella regione Lazio al fine di rispettare gli standard del famoso DM 70/2015 la programmazione dei posti letto per il biennio 2017-2018 è pari a 17.458 p.l per acuti e 4.097 pl post acuti per un totale di 21.555 pl complessivi. I posti letto pubblici sono pari a 10.587 per acuti e 435 post acuti per un totale di 11.022 pl pubblici. Il rapporto pl/1.000 abitanti è pari a 2,99 per gli acuti e a 0,70 per la post acuzie. Peraltro l’effettiva operatività è inferiore ai dati programmati. Conseguente con la pianificazione è anche la programmazione degli interventi di edilizia ospedaliera.