
Prima dell’aziendalizzazione delle unità sanitarie locali tutti i servizi e le attività sanitarie venivano gestiti direttamente con personale proprio.
Venivano effettuate gare solamente per l’acquisto dei macchinari, dei beni di consumo (es. prodotti per il confezionamento dei pasti, farmaci, ecc.) e del carburante.
Tutti gli ospedali disponevano di magazzini gestiti spesso in maniera informatica e di un sistema di distribuzione efficiente.
C’era una analisi attenta sui fabbisogni effettivi e quantità acquistate, ma ogni USL provvedeva ancora autonomamente per gli acquisti per cui esisteva una molteplicità di stazioni appaltanti anche se gradualmente vennero costituite le prima unioni di acquisto tra più USL.
Con l’introduzione dell’aziendalizzazione (1992) ha iniziato a farsi strada il principio manageriale del make or buy che consiste nella valutazione da parte dei dirigenti circa l’opportunità di gestire un servizio o una attività direttamente allo scopo di garantire un controllo diretto sull’attività e sulla qualità del servizio o di affidarlo a imprese esterne riducendo così i costi fissi[1].
In questo modo, secondo gli economisti, le aziende avrebbero potuto concentrarsi sul core business (per le aziende sanitarie è indubbiamente l’assistenza sanitaria) e beneficiare di economie di scala.
Dopo il blocco del turn over del personale e le limitazioni delle assunzioni l’affidamento all’esterno dei servizi è stata una soluzione obbligata per molti direttori generali.
Talora non sono state fatte valutazioni adeguate anche perché non sempre il personale addetto è preparato e i responsabili di turno si sono mossi spinti da scelte non sufficientemente ponderate.
Conseguentemente il numero delle gare per l’appalto dei servizi è lievitato notevolmente e con esso i rischi di corruzione.
Anche i capitolati di gara non sempre sono stati adeguati e solo grazie all’ANAC è stato possibile disporre di una tipologia di bandi fatti come si deve.
Ma sono aumentati anche i costi per cui oggi nella maggioranza delle aziende la spesa per l’acquisto di servizi è divenuta la più elevata.
Confrontando infatti i dati della spesa sostenuta dalle aziende sanitarie per l’acquisto di servizi[2] nel 2010 (€ 402.428.000) con quella del 2020 (1.340.974.770) si rileva un aumento superiore al doppio.
Questo ha naturalmente comportato anche un conseguente aumento della spesa complessiva delle aziende sanitarie.
Oltre che una spesa maggiore l’affidamento all’esterno dei servizi comporta una notevole rigidità legata al capitolato per cui nel caso in cui l’azienda volesse modificare l’organizzazione del lavoro durante il periodo dell’appalto potrebbe incontrare delle difficoltà.
A questo si deve aggiungere una differenziazione del trattamento economico del personale che svolge le stesse mansioni, atteso che quello che opera nelle aziende appaltatrici ha contratti diversi da quelli della sanità pubblica.
All’inizio erano stati affidati a ditte esterne solo i servizi economali, ma oramai l’esternalizzazione dei servizi sanitari è di gran lunga prevalente con costi rilevanti per il SSN.
I settori dove è maggiore l’affidamento all’esterno sono quelli per l’assistenza nelle case di cura accreditate e quello per i servizi ospedalieri non sanitari, ma a causa dell’epidemia sono in crescita anche i costi per il reclutamento del personale sanitario presso Agenzie per il lavoro.
L’affidamento ai dirigenti di Distretto della funzione di committenza ha comportato un ulteriore aumento di spesa anche nei servizi distrettuali per l’assistenza affidate ai privati delle RSA, degli hospice, dell’assistenza domiciliare della consegna dei farmaci “per conto” e di altri servizi sul territorio
In tutti i casi sulle fatture emesse dalle ditte appaltatrici viene applicata l’IVA che contribuisce ad elevare il costo dei servizi affidati all’esterno.
In questi giorni la stampa nazionale e locale è piena di articoli che parlano di interi reparti gestiti dalle coop e di medici “gettonisti” che in una settimana guadagnano più di quanto prendono i loro colleghi dipendenti in un mese.
Da uno studio svolto da Lancet e pubblicato a luglio di quest’anno, basato sui dati di otto anni relativi ai servizi esternalizzati nel Regno Unito nel 2012 dalla Thacher al 2020 è stato rilevato un amento della mortalità dei pazienti curati nelle strutture private rispetto a quelle pubbliche.
Secondo B. Goodair e A. Reeves, autori dello studio, la spiegazione sarebbe duplice:
-il privato tende a ridurre i costi per massimizzare i profitti
-il privato seleziona i casi meno complessi concentrando i casi più complicati al settore pubblico che però ha insufficienti risorse e carenze croniche di personale.
Peccato che nessuno in Italia abbia pensato a fare uno studio del genere….
Uno dei primi atti del nuovo Parlamento dovrà essere quello di sbloccare le assunzioni se ne parla da tempo, ma è giunta l’ora di farlo.
Con l’occasione sarebbe opportuno anche stabilire uno standard del rapporto tra dipendenti e abitanti; prendendo ad esempio gli Stati del nord Europa fondatori insieme all’Italia dell’Unione Europea, il 10×1000 potrebbe essere una cifra giusta e permetterebbe al Servizio Sanitario pubblico di re-internalizzare tutte le attività sanitarie che non possono essere lasciate al profitto dei privati.
Come ci ha detto Gino Strada il profitto va abolito dalla sanità.
Qui il link per leggere l’articolo di Lancet.
https://www.thelancet.com/journals/lanpub/article/PIIS2468-2667(22)00133-5/fulltext
[1] L. Canez, K. Platts, Make-or-buy: A practical Guide to industrial sourcing decisions, University of Cambridge Institute for manufacturing, Cambridge, 200; D. MASCIA, L’organizzazione delle reti in sanità. Teoria, metodi e strumenti di social network analysis, Franco Angeli, Milano, 2009.
[2] Ministero della Salute, Archivio banca dati economico finanziari regionali