LA CORTE COSTITUZIONALE DICHIARA LA ILLEGITTIMITà DELLA INCOMPATIBILITà DEL RUOLO DI PRESIDENTE DI REGIONE CON QUELLO DI COMMISSARIO AD ACTA PER IL PIANO DI RIENTRO DAI DISAVANZI

La Corte Costituzionale, Presidente Lattanzi e Redattore Franco Modugno ha depositato oggi la decisione del 22 ottobre scorso con cui ha accolto il ricorso della Regione Molise per l’annullamento dell’art. 25-septies del decreto-legge 23/10/2018, n. 119, convertito, con modificazioni, nella legge 17/12/2018, n. 136.

La Corte ha argomentato come segue: In linea di massima, deve infatti ritenersi corretta l’affermazione secondo la quale, una volta constatato il fallimento dei concordati Piani di rientro, i cui risultati sono accertati attraverso le periodiche verifiche effettuate nell’ambito di Tavoli di lavoro cogestiti, l’intervento dello Stato, attraverso l’istituto del commissariamento, coinvolge una fase di intervento sostitutivo ontologicamente riservato – sul piano normativo e gestionale – alle scelte statali, nell’ambito delle attribuzioni devolute e per le finalità indicate dall’art. 120, secondo comma, Cost.

E deve in proposito richiamarsi il costante assunto, ribadito da ultimo nelle sentenze n. 195 e n. 194 del 2019, secondo il quale «le Regioni possono evocare parametri di legittimità costituzionale diversi da quelli che sovrintendono al riparto di competenze tra Stato e Regioni solo a due condizioni: quando la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a riverberarsi sulle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite […] e quando le Regioni ricorrenti abbiano sufficientemente motivato in ordine alla ridondanza della lamentata illegittimità costituzionale sul riparto delle competenze, indicando la specifica competenza che risulterebbe offesa e argomentando adeguatamente in proposito».

Occorre peraltro assegnare il dovuto risalto alla circostanza che, per il concreto atteggiarsi delle specifiche opzioni esercitate in ambiti pur riservati, lo Stato possa “incidere” su competenze regionali concorrenti – come la tutela della salute ed il coordinamento della finanza pubblica – secondo prospettive che la Regione può rivendicare come menomative, e di là dai limiti tracciati dalle necessità insite nell’intervento in sussidiarietà.

Ove così non fosse, d’altra parte, si realizzerebbe una ipotesi di totale sottrazione al controllo costituzionale da parte delle Regioni, circa i possibili ambiti di interferenza con le relative attribuzioni, in tutte le ipotesi in cui lo Stato faccia uso degli eccezionali poteri al medesimo conferiti per surrogare carenze degli enti locali, in particolare sul versante della tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.

Ebbene, nella vicenda in esame, introducendo la norma impugnata un meccanismo di incompatibilità tra la carica di commissario ad acta rispetto all’affidamento o alla prosecuzione di qualsiasi incarico istituzionale presso la Regione commissariata, si determina una automatica menomazione sul piano delle competenze, anche rispetto alla previgente disciplina, dal momento che il quadro normativo preesistente consentiva l’esercizio di quella funzione da parte del Presidente della Regione commissariata.

Un novum normativo che finisce, quindi, per determinare (specie per i commissariamenti in atto, ricoperti da presidenti di Regione, che decadono dall’incarico) una significativa interferenza nella sfera regionale, anche sul versante del relativo assetto ordinamentale, riferito, per di più, alla gestione di ambiti di competenza (sanità e coordinamento della finanza pubblica) concorrenti, anche se incisi dall’intervento sostitutivo dello Stato.

Non è quindi contestabile la legittimazione della Regione a far valere i vizi di una normativa che – pur se inquadrata nell’ambito dell’esercizio del potere sostitutivo dello Stato – modifica il previgente regime, direttamente riguardante non le attribuzioni del commissario ad acta in quanto tali, ma la persona che ricopra l’incarico di Presidente della Regione, assunto come soggetto incompatibile a svolgere quelle funzioni.

Nel merito, la questione è fondata.

Al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni avuto modo di ribadire che «l’inserimento di norme eterogenee rispetto all’oggetto o alla finalità del decreto-legge determina la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. Tale violazione, per queste ultime norme, non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza, giacché esse, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari (sentenza n. 355 del 2010), ma scaturisce dall’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione attribuisce ad esso, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge» (sentenza n. 22 del 2012).

La legge di conversione è fonte funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge ed è caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare e semplificato rispetto a quello ordinario. Essa non può quindi aprirsi a qualsiasi contenuto, come del resto prescrive, in particolare, l’art. 96-bis del regolamento della Camera dei deputati. A pena di essere utilizzate per scopi estranei a quelli che giustificano l’atto con forza di legge, le disposizioni introdotte in sede di conversione devono potersi collegare al contenuto già disciplinato dal decreto-legge, ovvero, in caso di provvedimenti governativi a contenuto plurimo, «alla ratio dominante del provvedimento originario considerato nel suo complesso» (sentenza n. 32 del 2014).

D’altra parte, «il carattere peculiare della legge di conversione comporta anche che il Governo – stabilendo il contenuto del decreto-legge – sia nelle condizioni di circoscrivere, sia pur indirettamente, i confini del potere di emendamento parlamentare. E, anche sotto questo profilo, gli equilibri che la Carta fondamentale instaura tra Governo e Parlamento impongono di ribadire che la possibilità, per il Governo, di ricorrere al decreto-legge deve essere realmente limitata ai soli casi straordinari di necessità e urgenza di cui all’art. 77 Cost. (sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007)» (sentenza n. 154 del 2015).

È vero – e va ancora ribadito – che «[l]a legge di conversione […] rappresenta una legge “funzionalizzata e specializzata” che non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei (ordinanza n. 34 del 2013), ma ammette soltanto disposizioni che siano coerenti con quelle originarie o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico» (sentenza n. 32 del 2014).

Tuttavia questa Corte ha anche precisato che la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. per difetto di omogeneità si determina solo quando le disposizioni aggiunte siano totalmente «estranee» o addirittura «intruse», cioè tali da interrompere ogni correlazione tra il decreto-legge e la legge di conversione (sentenza n. 251 del 2014), per cui «Solo la palese “estraneità delle norme impugnate rispetto all’oggetto e alle finalità del decreto-legge” (sentenza n. 22 del 2012) o la “evidente o manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell’originario decreto-legge” (sentenza n. 154 del 2015) possono inficiare di per sé la legittimità costituzionale della norma introdotta con la legge di conversione» (sentenza n. 181 del 2019, nonché, da ultimo, nello stesso senso, sentenza n. 226 del 2019).

Ebbene, alla stregua dei richiamati principi, appare nella specie evidente che tra le norme che hanno formato oggetto del decreto-legge n. 119 del 2018 e quella oggetto di scrutinio, inserita ad opera della legge di conversione, non sia intravedibile alcun tipo di nesso che le correli fra loro, né sul versante dell’oggetto della disciplina o della ratio complessiva del provvedimento di urgenza, né sotto l’aspetto dello sviluppo logico o di integrazione, ovvero di coordinamento rispetto alle materie “occupate” dall’atto di decretazione.

L’originario decreto, infatti, enunciava i presupposti della straordinaria necessità e urgenza come raccordati a «misure per esigenze fiscali e finanziarie indifferibili». Il provvedimento, in particolare, era strutturato in due titoli: il primo, recante «Disposizioni in materia fiscale», ed il secondo, «Disposizioni finanziarie urgenti». Il primo titolo era a sua volta suddiviso in tre capi: il primo recante «Disposizioni in materia di pacificazione fiscale», composto da nove articoli; il capo II recante «Disposizioni in materia di semplificazione fiscale e di innovazione del processo tributario», composto di sette articoli; il capo III recante «Altre disposizioni fiscali», composto da quattro articoli. Il Titolo II era composto da sette articoli.

Come posto in evidenza dal Comitato per la legislazione della Camera dei deputati, l’originario decreto-legge (composto, come si è detto, da 27 articoli) è passato, a seguito dell’esame del Senato, a 64 articoli complessivi. Il Comitato ha sottolineato, al riguardo, che il provvedimento appare riconducibile, sulla base del preambolo, a due distinte finalità: da un lato, quella di introdurre nuovi meccanismi di carattere fiscale; dall’altro lato, quella di effettuare rifinanziamenti di significativi stanziamenti di bilancio (quali le risorse destinate al contratto di programma con le società RFI-Spa, art. 21; quelle per il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, art. 22; quelle per l’autotrasporto, art. 23; quelle per le missioni internazionali, art. 24; a queste finalità – ha ancora osservato il Comitato – se ne aggiunge una terza, per quanto non riportata nel preambolo, vale a dire quella di intervenire in materia di integrazione salariale straordinaria, art. 25. «Andrebbe approfondita – rileva il documento – la riconducibilità a tale perimetro» di varie norme introdotte in sede di conversione, fra le quali si cita espressamente proprio l’art. «25-septies (piano di rientro dal disavanzo del settore sanitario)», che costituisce oggetto dei ricorsi.

Va infine sottolineato che il Comitato conclusivamente «raccomanda altresì quanto segue: abbia cura il Legislatore di volersi attenere alle indicazioni di cui alle sentenze della Corte costituzionale n. 22 del 2012 e n. 32 del 2014 in materia di decretazione d’urgenza, evitando “la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalità eterogenei”».

Pertanto, esclusa qualsiasi pertinenza delle disposizioni di carattere fiscale contenute nel titolo I del decreto rispetto al tema dei commissari per il ripianamento delle spese sanitarie regionali, non può non sottolinearsi come del tutto eccentrico rispetto a quel tema si presenti anche l’oggetto (e la ratio) delle disposizioni di carattere “finanziario”, posto che gli articoli del decreto “incasellati” nel titolo II sono dedicati, come si è visto, al finanziamento di specifiche attività o fondi tutti eterogenei gli uni rispetto agli altri.

D’altra parte, a segnalare la eccentricità della norma censurata rispetto alla materia del decreto sta – come correttamente puntualizza la Regione ricorrente – il rilievo che, in sede di conversione del decreto stesso, il legislatore abbia avvertito l’esigenza di modificare, in parte qua, proprio la rubrica del titolo II, introducendo le parole «e disposizioni in materia sanitaria», a testimonianza della estraneità della norma rispetto al contenuto del provvedimento convertito.

A tale riguardo, l’Avvocatura generale dello Stato osserva, da un lato, che la disposizione oggetto dei ricorsi è intervenuta su norme contenute in due leggi finanziarie, e dunque rientrerebbe nella “materia finanziaria” che costituisce in parte oggetto dell’originario decreto. Dall’altro lato, la difesa dello Stato rileva che la disciplina dei piani di rientro afferisce pacificamente alla materia della finanza pubblica e, in particolare, alle politiche di bilancio, dal momento che l’andamento economico della sanità regionale costituisce una componente essenziale del quadro macroeconomico nazionale, specie con riferimento proprio al caso dei commissariamenti, che presuppongono uno squilibrio di gravità tale da imporre interventi immediati sul piano del contenimento della spesa pubblica, a salvaguardia della unità economica nazionale e dei livelli essenziali di prestazioni in tema di salute.

A fronte di tali rilievi deve però rilevarsi che il concetto di “materia finanziaria” si riempie dei contenuti definitori più vari, in ragione degli oggetti specifici cui essa risulta in concreto riferita; mentre, non è certo la sedes in cui la norma risulti inserita (legge finanziaria) quella dalla quale cogliere quei tratti di univocità di ratio che la difesa della resistente pretenderebbe desumere.

È proprio perché la “materia finanziaria” risulta concettualmente “anodìna” – dal momento che ogni intervento normativo può, in sé, generare profili che interagiscono anche con aspetti di natura “finanziaria” – che il riferimento ad essa, come identità di ratio, risulta in concreto non pertinente a fronte di una disposizione i cui effetti finanziari sono indiretti rispetto all’oggetto principale che essa disciplina, giacché – ove così non fosse – le possibilità di “innesto” in sede di conversione dei decreti-legge di norme “intruse” rispetto al contenuto ed alla ratio complessiva del provvedimento di urgenza risulterebbero, nei fatti, privata di criteri e quindi anche di scrutinabilità costituzionale.

La disposizione impugnata deve pertanto essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 77 Cost.

Autore: francobrugnola

Scrittore, mi occupo prevalentemente degli enti locali e di sanità, settori nei quali ho lavorato molti anni come dirigente.

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